di Veronica Papa, istruttore cinofilo

Era il gennaio del 2015 e mi trovavo a Catania; ad un certo punto intravidi un gruppetto di tre-quattro cani di quartiere, stesi lungo un muretto, che prendevano il sole. Avendo con me alcuni resti di pizza ed essendo al tempo animata da un forte spirito assistenzialista, mi fermai e lasciai il sacchetto con gli avanzi poco lontano da loro, per non disturbarli troppo con la mia invadenza, e me ne tornai trepidante in auto, per osservare la loro reazione.

Dopo qualche secondo il più grosso, un cane adulto, che si vedeva chiaramente che non avesse mai incrociato una spazzola in vita sua, si alzò, raggiunse il sacchetto, lo esplorò per bene, ne assaggiò con attenzione il contenuto, e con la massima naturalezza lo raccolse con la bocca e lo portò ai compagni, che erano rimasti distesi tranquilli. Lo posò a terra, ne consumò qualche altro boccone e lasciò loro il resto, e con calma ne assaggiarono un poco tutti.

Restai a bocca aperta.

Tutta la scena si era svolta con disinvoltura: era chiaro che fosse vita quotidiana, che per quei cani, che non avevano mai conosciuto nessuna forma di addestramento, analizzare con atteggiamento critico del cibo, trasportarlo, consumarlo con tutta calma e condividerlo con gli altri fosse la cosa più ovvia del mondo; quando per ottenere lo stesso risultato con i cani di famiglia era necessario spendere ore ed ore di lavoro, senza peraltro ottenere la stessa disinvoltura e spontaneità. Perché era questo che mi aveva sopra ad ogni altra cosa colpita: la disinvoltura!

Non un esercizio senza senso, costruito per compiacere un umano e ricevere in premio la sua approvazione, ma un comportamento biologicamente sensato, che aveva un’utilità per il singolo e per l’intero gruppo, valutato con attenzione e misurato in ogni sua componente, per non eccedere nell’impiego di energie ma neppure trascurare particolari fondamentali, come l’assicurarsi che il contenuto fosse affidabile.

Tutto questo rivelava chiaramente una naturale capacità di analisi e di valutazione, oltre a competenze cinestesiche (cioè di organizzazione del movimento) molto avanzate, rispetto a quanto ero abituata a vedere nei cani che incontravo nel mio lavoro.
Ovviamente cominciai a domandarmene il motivo, e ben presto arrivai alla triste conclusione che ai nostri cani purtroppo fin da piccoli viene inibita qualunque forma di sviluppo di autonomia ed emancipazione.

Se un cucciolo sperimenta raccogliendo ciò che trova per casa e portandolo in giro viene immediatamente redarguito. Se fa esperienza di ciò che è commestibile o meno raccattando cose che noi umani definiamo schifezze, ma che per lo stomaco di un cane non rappresentano particolari problemi (foglie secche, cicche di sigaretta, resti di animali morti, feci, ecc.), lo si inibisce immediatamente, impedendogli così di imparare a discernere da solo ciò che vale la pena con ciò che invece conviene lasciare a terra. La cinofilia moderna tende ad insegnare al cane a non prendere alcuna iniziativa, a non valutare con la propria testa, a non ragionare ma a delegare all’essere umano, eseguendo solo ciò che gli viene indicato. In fondo si usa dire con estrema naturalezza “gestire il cane”, senza soffermarsi a pensare a quanto pesanti siano queste parole.

La selezione genetica operata dall’uomo predilige la docilità all’assertività, l’educazione si basa sull’impotenza appresa piuttosto che sul favorire la libera iniziativa, e i suoi obiettivi sono la totale dipendenza, passività e inettitudine piuttosto che l’emancipazione e l’autonomia.

Del resto l’ambiente stesso in cui viviamo noi occidentali impone questo stile, e al momento non è neppure immaginabile poter agire diversamente, e forse non lo sarà mai più. Ma c’è stato un tempo, tutto sommato recente, in cui era ancora possibile vedere dei cani di famiglia muoversi in libertà e con discernimento anche per le strade delle città del nord Italia, dove oggi, invece, sono totalmente scomparsi.

Io credo che un compromesso, comunque, sia ancora possibile trovarlo.

Quello che dovremmo fare è imparare ad ascoltare di più il cane, a conoscerne meglio le caratteristiche di specie, senza dare per scontato che il suo modo di stare al mondo coincida con il nostro solo perché tendenzialmente occupiamo la medesima nicchia ecologica. Possiamo cominciare ad accettare che la sua animalità sia diversa da quella dell’uomo, ma non per questo meno valida e completa.

Possiamo cominciare a costruire una vita insieme basata sulla fiducia reciproca, e non solo sulla richiesta di delegare tutto a noi; per sua natura il cane è portato ad adeguarsi all’ambiente, a rispettarne le regole, ad evitare i conflitti, ma deve essere aiutato a capire come muoversi per ottenere tale risultato, e questo è il nostro compito. Ma è altresì in grado di ragionare con la sua testa, anche se in concertazione con il gruppo cui appartiene; e se gli viene permesso di rapportarsi veramente alla pari ci potrebbe stupire per il suo senso di responsabilità e il suo agire coscienzioso. Queste, e non altre, a mio avviso e per mia esperienza, sono le condizioni che consentono al cane di esprimere al massimo le sue potenzialità intellettive.