di Francesco De Giorgio

Esistono cavalli invisibili? Si esistono, sono tutti quelli che scegliamo di non vedere o di cui neghiamo la loro animalità e la loro appartenenza ad una storia che va ben oltre tutti quegli antropomorfismi, addestrocentrismi, romanticismi e sindacalismi che riempiono i capannoni, le catene di montaggio e le altre strutture dell’industria equestre, quella del passato così come, ancor di più, quella del presente.

Le molte facce della cultura equestre, ognuna da una sua propria prospettiva, indipendentemente che sia classica, naturale, dolce, etologica o etica, hanno avuto tutte, ribadisco tutte, la responsabilità di storpiare, anzi raddrizzare, ma in senso spregiativo, l’identità del cavallo, anche a causa di una romanticizzazione della domesticazione, dell’arte e del militarismo equestre.

E così il cavallo, da animale come ogni animale, con un suo proprio mondo di percezione, con un proprio patrimonio culturale specifico e soggettivo, con propri palcoscenici di apprendimento e con proprie tessiture socio-cognitive, è stato trasformato di volta in volta in strumento di guerra, marionetta da circo, atleta olimpico, preda reattiva, pazzo imprevedibile o immigrato da addestrare alla prosocialità per renderlo adeguato alla nostra società moderna, o meglio ai nostri moderni desideri antropocentrici, specisti e colonialistici a discapito dell’animalità. La macchina addestromorfica degli apparati equestri ha quindi stravolto, e continua a farlo, la conoscenza del cavallo trasformandolo in un monumento, appunto equestre, che ha perso ogni fondamento animale, con una notevole perdita di propria animalità, un po’ come è successo anche con il cane a causa delle distorsioni indotte dall’industria cinofila e dai suoi romanticismi sulla relazione tra umano e cane.

E poco conta se ad un cavallo viene, si o no, messo un ferro in bocca, perché gran parte della ferraglia che un cavallo suo malgrado deve portare è invisibile, essendo messa nella sua mente, oltre che prima di tutto nella sua soggettività e nella sua dimensione emozionale.

In questo anche la tanto declamata etologia, che è stata per me nutrimento culturale per gran parte della mia vita passata, ha deluso in gran parte le sue promesse, non aiutando a mettere in discussione l’industria equestre, ma anzi mettendosi al suo servizio, cercando di renderla eticamente più accettabile (un po’ come accade con la carne felice, il latte etico e la bioviolenza), da parte di un’opinione pubblica con una sempre maggiore e sensibile crescita antispecista. Tra l’altro molti dei modelli interpretativi che ancora ci vengono propinati, anche all’interno di ricerche etologiche su riviste scientifiche di alto livello, sia nelle ipotesi di lavoro delle ricerche che nelle interpretazioni dei dati ottenuti, ripropongono assiomi, come ad esempio la gerarchia di dominanza, che più appartenere a modelli scientifici, provengono da ideologie gerarchico-militariste sviluppatesi tra le due guerre mondiali.

Se riconosci la soggettività di un animale, non lo addestri

Quindi come rendere visibile il cavallo invisibile, per chi lei o lui veramente è? Come incontrarlo? Come riconoscerlo? Il primo necessario passo è a mio parere il riconoscimento di alcuni principii cardine come quelli di soggettività, animalità, dignità, integrità ed emancipazione mentale. Gran parte dei cavalli impiegati nell’industria equestre, non a parole ma nei fatti, non vede riconosciuti questi principii fondamentali. Con particolare riferimento ai primi due principii, con riconoscimento della soggettività non si intende l’addestrare un cavallo in base al soggetto, ma rinunciare ad addestrarlo proprio in quanto gli si riconosce una propria soggettività; così come comprendere l’animalità, significa anche comprendere che i tanti, troppi, cavalli che entrano nelle catene di montaggio dell’addestramento equestre, anche quando fatto con “amore”, perdono la loro animalità. Anche capire come preservare, facilitare o recuperare la dignità, l’integrità e l’emancipazione della mente animale, con un cavallo che inizia a riappropriarsi di propri pensieri, diventa un passo cruciale, all’interno di un percorso personale, che per gli umani significa fare scelte in direzione di uno stile di vita non oppressivo nei confronti dei cavalli. Questo non significa liberare tutti i cavalli in natura, perché sarebbe anche questa una scelta eticamente discutibile, ma significa in prima istanza liberare la nostra e la loro mente, da tutte quelle ideologie addestrative che oggi più che mai stanno mettendo a dura prova e in ginocchio l’identità equina. Questo comporta scegliere stili di vita e convivenza nuovi, nuovi modi di pensare, nuove attività. Facilitando i cavalli a vivere in gruppi sociali stabili, dove le loro istanze socio-cognitive possano essere liberamente espresse, dove le interazioni e relazioni con l’umano si proporranno in una dimensione di dialogo libero da addestramenti e aspettative, dove il cavallo diventa, o meglio ritorna a diventare, finalmente proprietario del suo apprendimento. Questo non significa affatto prendere strade new age, zen o di abbandono dei cavalli in paddock o sulle montagne, strade che sono spesso più antropocentriche di quelle equestri, ma significa restituire ai cavalli, anche a noi stessi animali umani, quell’animalità troppo spesso negata, mortificata, sottomessa e perduta. In questa direzione è importante comprendere non cos’è, ma chi è il cavallo; chi è un cavallo quando nasce, con il suo proprio patrimonio cognitivo, non preda ma esploratore di mondi, nato utile a se stesso, con un proprio valore intrinseco, che costruisce proprio mondi e proprie realtà, proprietario di un mente sociale che si esprime al meglio all’interno di un gruppo sociale stabile, che forma propri legami affettivi e relazioni, che non ha bisogno di incontrare suoi simili, ma vivere con proprie appartenenze socio-famigliari, più steppivoro che erbivoro, che ha voglia di diventare proprietario degli oggetti intorno a lui, anche di una cavezza, che fa etica animale soprattutto quando esprime comportamenti definiti problematici, che sono invece atti di resistenza e ribellione, grazie ai quali esprime il suo essere partigiano di se stesso, della propria patria, del proprio sentire e del proprio libero pensare.