La Convenzione Cites delle Nazioni Unite sulle specie minacciate definisce l’elefante africano “on a fast track to extinction”: in rapida corsa verso l’estinzione. Tuttavia, inesorabilmente, ogni anno con l’arrivo della stagione secca riprende il fenomeno del bracconaggio in diversi Stati africani: Kenya, Sud Africa, Tanzania, Namibia, Repubblica Centrafricana, Ciad, Gabon e non solo. Ma è stato il Camerun nel 2012 il teatro delle violenze più aberranti come denunciato dall’Ifaw al Parlamento Europeo a Strasburgo.

Una mattanza forse purtroppo irreparabile per una specie già fortemente decimata dall’uomo, per per dare un’idea: almeno quattrocentocinquanta esemplari massacrati nel solo mese di febbraio all’interno del Bouba N’Djida National Park e quattro tonnellate di avorio sequestrate ad Honk Kong in ottobre, l’equivalente di oltre seicento elefanti uccisi. Il genocidio di questi ultimi anni assume proporzioni persino maggiori rispetto alle stragi degli anni ottanta che portarono alla messa al bando internazionale del commercio d’avorio.

Ma perché quest’escalation? Ci sono due ragioni principali. In primo luogo, l’avorio è fonte di finanziamento per i signori della guerra protagonisti in Somalia, nel Darfur, in tutti quegli infiniti teatri di atrocità che continuano ad insanguinare il continente africano e – secondo gli esperti – le tracce dell’avorio, ormai a tutti gli effetti ribattezzato oro bianco, portano fino al famigerato e terribile Lord’s Resistance Army attivo in Uganda, Congo, Sudan e Repubblica Centrafricana. Ma non solo armi: non stupisce, infatti, che i bracconieri usino le stesse piste e le stesse frontiere battute dai trafficanti di esseri umani e di stupefacenti.

In secondo luogo, il commercio illegale: l’Ifaw riferisce che il contrabbando d’avorio sta seguendo le orme di quello che è stato il commercio dei diamanti e purtroppo l’impatto di tali attività criminali è in Europa e, sebbene, i porti spagnoli e belgi siano stati identificati come importanti punti d’ingresso, il problema principale risulta l’e-commerce – il commercio in rete – che elimina le frontiere e rende di fatto difficilissima l’identificazione.

Ma il vero business dell’avorio illegale muove interessi milionari in Asia, soprattutto in Cina e in Giappone dove le zanne di questi bellissimi animali non sono altro che bacchette, pettini e altri oggetti ornamentali. Ma spesso il prodotto finale è un oggetto ancora più piccolo la cui diffusione è però immensa in estremo oriente: in quei paesi la tradizione vuole che agli uomini adulti sia regalato un ciondolo che se fino a pochi anni fa era in legno ora, con il boom economico, è in avorio.
Droga, tratta di esseri umani, armi e vanità: sono questi i moventi di una strage orribile e quotidiana. I bracconieri usano il machete per tagliare le proboscidi degli elefanti che spesso vengono lasciati agonizzare; inoltre, l’elefante, essendo un animale sociale, vive in branco e ha un forte senso di appartenenza anche dopo la morte e per questo gli aguzzini attendono vicino alle carcasse il ritorno dei compagni guidati dall’istinto ed ignari della terribile sorte alla quale vanno incontro.

Ma non è solo una carneficina di animali indifesi, i guardiani dei parchi non conoscono il territorio (in Camerun il Bouba N’Djida National Park non dispone neppure di mappe) e vengono mandati al macello insieme agli elefanti che dovrebbero proteggere lasciando così mogli e figli, altre vittime innocenti di questa follia umana.

A fine novembre 2012, in Suriname, la conferenza Unione Europea-ACP Countries (i paesi dell’area Africa, Caraibi, Pacifico) ha riconosciuto la gravità assoluta della strage degli elefanti e del commercio d’avorio in termini non solo etici ma anche ecologici, economici, culturali ed estetici. Pertanto, la Dichiarazione congiunta dei Presidenti Louis Michel e Musikari Kombo ha richiamato i trentasette paesi che ospitano l’elefante invitandoli ad un maggiore impegno nell’attuazione dei diversi piani di protezione di questa specie -tra cui l’African Elephant Action Plan- e a rafforzare le leggi e le politiche di contrasto al contrabbando d’avorio.

Ma il crudele e triste destino dell’elefante è purtroppo comune ad un altro grande mammifero simbolo dell’Africa, il rinoceronte. La normativa scaturita dalla Conferenza delle Parti della Convenzione Cites del 2004 non solo ha ingiustificabilmente riaperto alla caccia sportiva, ma si è persino dimostrata piena di cavilli e scappatoie utili a bracconieri, contrabbandieri e consorterie criminali di ogni tipo. Ciò ha generato negli ultimi anni un aumento esponenziale di cittadini vietnamiti stabilmente residenti in Sud Africa che richiedevano permessi di caccia quando, in realtà, spesso non sapevano neanche sparare ma erano invece molto interessati al corno di questi animali ben conoscendone il valore che esso ha sul mercato del proprio paese dove, da un lato, è sinonimo di elevato status symbol e, dall’altro, è utilizzato per la purificazione del corpo, contro i postumi dell’ebbrezza, come droga per i più giovani o persino vergognosamente “proposto ai malati terminali di cancro che pagano per una cura miracolosa che non funzionerà mai” come affermato da Tom Milliken di Traffic. In seguito ad un giro di vite che il Sud Africa ha attuato nei confronti dei permessi ai cittadini vietnamiti, che restano comunque ancora numerosi nel paese, si è scoperto un fatto tanto inquietante quanto desolante: si è registrato, infatti, un picco di richieste anomale da parte di cittadini polacchi e della Repubblica Ceca che sono stati in seguito scoperti agire come prestanomi dei cacciatori vietnamiti.
Pertanto, come sottolineato a Strasburgo da Human Society International, è auspicabile che durante la prossima Conferenza delle Parti si approvi un emendamento che garantisca un ritorno ad una protezione completa del rinoceronte e, ove ciò non fosse possibile, quanto meno si stabilisca una data certa entro la quale si dovrà giungere ad una quota zero di esportazioni di trofei di caccia. Altrimenti un mercato che garantisce un continuo incremento della domanda, inesorabilmente spingerà molti cacciatori a vendere illegalmente i propri – comunque orribili e vergognosi – cimeli.

Dai 13 rinoceronti uccisi nel 2007 si è giunti ai 668 stimati nel 2012: i numeri di questa barbarie danno un’idea immediata della necessità di provvedimenti urgenti per fermare il massacro o, altrimenti, anche il rinoceronte africano farà la stessa fine del suo fratello più a rischio nel mondo, il rinoceronte di Java, il cui ultimo esemplare in Vietnam è stato rinvenuto senza corno.

Purtroppo il recente accordo siglato ad Hanoi tra il Vietnam ed il Sud Africa per contrastare il bracconaggio appare troppo vago e fumoso e l’Unione Europea nelle sedi opportune ha il dovere di farsi portavoce di milioni di cittadini che chiedono un mondo diverso e rispettoso degli animali.

Sabato 26 gennaio l’OIPA ha aderito ad un sit-in di protesta indetto da GRIDER, un gruppo nato per promuovere attività in difesa di elefanti e rinoceronti, per denunciare l’atroce mattanza di elefanti e rinoceronti in Africa. Il sit-in si è simbolicamente svolto davanti all’ambasciata del Vietnam e l’OIPA si unisce con forza alle richieste internazionali di maggiori controlli oltre a nuove leggi e sanzioni detentive per fermare una crudeltà ingiustificabile ed insopportabile.

Nei prossimi giorni l’OIPA richiederà infatti un incontro ufficiale alle autorità diplomatiche vietnamite e cinesi per sollecitare risposte serie e verificabili circa le misure intraprese per contrastare il contrabbando d’avorio e dei corni di rinoceronte.

Edoardo Gandini
OIPA-EU Relations Officer
Member of European Enforcement Network of Animal Welfare Lawyers and Commissioners