di Claudio Calissoni

Quando ci mettiamo a parlare di caccia, pur tentando di analizzare il fenomeno da angolature diverse, non riusciamo mai a comprendere le ragioni profonde per cui degli esseri umani, come noi, decidano un bel giorno di dedicare il proprio tempo libero ad inseguire, terrorizzare, ferire gravemente e alla fine uccidere nei modi più atroci creature deboli ed innocenti. Fame? No, vista la mole standard del cacciatore medio, solitamente in ottimo se non abbondante stato nutrizionale, è piuttosto difficile credere che debba procurarsi il cibo cacciando. Saremo tutti d’accordo nel considerare molto diverso l’indio che vive nella foresta amazzonica dal cacciatore che spara con armi da guerra ad un povero disgraziato di fagiano, appena liberato da un allevamento. Allora sarà l’istinto ancestrale della predazione, ancora presente in noi umani? È vero che siamo evolutivamente dei cacciatori-raccoglitori, ma lo eravamo nel paleolitico. Nei millenni successivi ci siamo evoluti, quindi solo se dovessimo non considerare il processo di adattamento dei nostri comportamenti potremmo legittimare la caccia come azione biologicamente indispensabile a garantire la nostra sopravvivenza e, allo stesso modo, continuare sorridendo a prenderci a clavate in faccia, come fanno Tonda e Atouk nel “Cavernicolo”, lo spassoso film di Carl Gottlieb del 1981.

Vivendo però tutti noi in sistemi evoluti e ad alta complessità socio-antropologica, ci siamo dati delle regole di convivenza che al loro culmine sviluppano teorie, convinzioni e motivazioni di ordine etico e morale. Quindi l’istinto, o il suo richiamo al sanguinario uomo cacciatore di mammut, regge gran poco. Il cacciatore moderno, inoltre, appare poco credibile come erede filogenetico di questa figura primitiva, gira vestito bene, spende migliaia di euro in armi sofisticate, paga profumatamente licenze ed animali da abbattere. Non ricorda per niente l’antica caverna. Risulta, così, del tutto incomprensibile qualsiasi motivazione che i cacciatori adducono per giustificare un comportamento che, per quanto possa essere camuffato e “culturalmente” modulato, alla fine agli animali causa sempre paura, terrore, sofferenza, dolore, morte e spesso anche la distruzione del loro habitat di riferimento, così come la minaccia di sopravvivenza della loro stessa specie.

C’è da dire che a noi italiani in generale la caccia non piace affatto. La maggior parte della nostra popolazione è contraria alla caccia o la vorrebbe regolamentata in modo molto più restrittivo: i tre referendum organizzati negli anni ‘90, pur non avendo mai raggiunto il quorum necessario, hanno tutti dato un risultato schiacciante, con una percentuale di cittadini contrari alla caccia sempre oltre il’80%. A dimostrazione di una progressiva disaffezione degli italiani rispetto alle attività venatorie ci sono anche i numeri: dal 1980 al 2015 il numero delle licenze di caccia attive nel nostro Paese si è più che dimezzato (da 1.701.853 a 774.679 fonte Wikipedia).

C’è una situazione faunistica completamente nuova in Italia” afferma il professor Marco Apollonio, Professore Ordinario di Zoologia presso il Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio dell’Università di Sassari, incontrato recentemente ad un convegno sui lupi, di cui è un esperto riconosciuto a livello internazionale, “oggi c’è un’enorme abbondanza di selvatici in Italia, in particolare di ungulati e mammiferi come i cinghiali, tant’è vero che il numero dei grandi predatori sta crescendo in modo direttamente proporzionale e si stanno modificando le loro abitudini”. Già, perché i nostri cacciatori ora si devono confrontare con queste “nuove” presenze. Inutile sottolineare che l’attuale subcultura venatoria italiota vive lupi ed orsi come competitor estremi, animali pericolosi, nocivi, da sterminare senza alcun ragionamento. Diciamo che tanto vogliono gli animalisti l’estinzione dei cacciatori, tanto desiderano i cacciatori la polverizzazione manu propria dei grandi predatori.

Per raccontare quel che sta succedendo in Italia con lupi e orsi dobbiamo introdurre, in questo già tetro scenario, una star della modernità e dell’auspicabile evoluzione culturale venatoria: ancora una volta ci dà fulgido esempio la Provincia Autonoma di Trento, già ampiamente nota per la sua estrema tolleranza e capacità di gestione degli orsi, pardon delle orse, con una netta predilezione per le mamme orse – Daniza e KJ2, non vi dimenticheremo mai… – che questa volta nella lotta ai lupi si è trovata a fianco pure quella di Bolzano, un partner eccellente perché, essendo gestita da tedeschi, quando fa le cose le fa molto bene. Vanno inoltre fatte due premesse fondamentali per comprendere l’accanimento isterico montato contro i lupi e che si sta diffondendo come un virus in tutto il Trentino Alto Adige:

  • le elezioni provinciali incombono e le poltrone oggi ben salde degli attuali politici locali traballano. Sfruttare una paura popolare, quella del lupo mangiatore di bambini e dell’orso killer di uomini (preferibilmente a spasso con cani liberi in aree in cui sia segnalata la presenza di una mamma orsa con relativa prole) è una classica quanto misera manovra per raccattare voti e preferenze, in linea con il populismo dilagante in Europa, nelle aree periferiche delle scintillanti province e in determinate fasce socioeconomiche; tanto per dire in provincia di Bolzano risulta grottesca e spesso tragicomica la guerra ad oltranza ai lupi dichiarata dal “Südtiroler Bauernbund – Unione Agricoltori e Coltivatori Diretti Sudtirolesi” ai temibilissimi 2-3 lupi che si permettono di gironzolare per i boschi altoatesini, osando perfino mangiarsi una pecora, peraltro prontamente rimborsata dalla Provincia;
  • in tutti e due i territori provinciali gira un branco non stabile di lupi, cioè forse una decina molto scarsa di esemplari contro gli oltre 500 censiti nella sola Toscana (ma fatemi il piacere! di che stiamo parlando signori miei!); qui però, nelle ridenti valli madide di rugiada anche un singolo lupo è troppo. Siamo addirittura arrivati ad avere un insulso paesello che ha preteso l’affissione, sotto al cartello stradale con il nome del comune, la dicitura “Paese Delupizzato” (invero la scritta era in tedesco ma la traduzione è fedele) sulla falsa riga di un movimento di “delupizzazione” animato da persone con seri disturbi psicosociali, che si sta recentemente diffondendo in Germania. In questo clima si è sviluppata un’iniziativa delle due suddette nonché lungimiranti amministrazioni provinciali, ovvero l’approvazione di una delibera che consenta l’abbattimento discrezionale, nei due reciproci territori, dei cosiddetti “soggetti problematici”, insomma la solita insulsa minestra di grossolanità, condita con abbondante superficialità e clamorosa inadeguatezza scientifica, pepata, infine, con un pizzico di violazione delle norme. Non a caso il nuovo Ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha prima avvisato bonariamente i vertici delle due Province che stavano un tantino esagerando e poi, visto il loro mutismo, ha impugnato i provvedimenti davanti alla Corte Costituzionale che siamo certi non mancherà di ricordare a lor signori quanto le norme locali non possano mai prevalere su quelle di carattere nazionale ed in questo caso pure internazionale. Ciò che avrebbe saputo anche un qualsiasi studente, neppure bravissimo, al terzo anno di giurisprudenza. Mentre ci auguriamo che queste azioni temerarie siano in seguito ricordate anche alla Procura Generale presso la Corte dei Conti regionale, che magari il conto prima o poi lo presenterà a chi ha buttato consapevolmente dalla finestra i soldi dei cittadini per perseguire i propri squallidi interessi di natura esclusivamente politico-elettorale, vorremmo ricordare le conclusioni indicate dal professor Apollonio durante la sua recente conferenza tenutasi a Bolzano nel mese di settembre;
  • l’attuale espansione del lupo in Italia ed in Europa occidentale è il prodotto di fattori socioeconomici ed ambientali e continuerà;
  • un monitoraggio regolare è essenziale per la gestione del lupo;
  • solo la conoscenza del reale numero di branchi e della loro distribuzione può consentire una gestione proattiva ed efficace delle popolazioni;
  • la rimozione degli ibridi e dei lupi problematici richiede un’accurata conoscenza della popolazione;
  • una rimozione di individui fatta a caso non è la soluzione per nessuno dei problemi causati dal lupo;
  • una gestione differenziale è necessaria in rapporto al contesto ambientale e sociale dove si opera.

Un messaggio molto chiaro alle amministrazioni locali animate da istinti belligeranti: se sparate al lupo a casaccio (e andate in galera, aggiungiamo noi) non solo non ottenete alcun risultato rispetto agli eventuali danni che potrebbe provocare, ma al contrario li moltiplicate, come dimostrano i più autorevoli studi scientifici nordamericani su ampie popolazioni di lupi. Uno dei temi più discussi, infatti, è l’individuazione del soggetto problematico.

Chi, tra gli esperti che popolano i competenti uffici provinciali di Trento e Bolzano, deciderebbe che un lupo (o un orso) sia “problematico” e con quali criteri, conoscenze, competenze lo saprebbe fare? Ce lo spiega in breve il professor Apollonio «Non esiste un modo oggettivo di definire un lupo come problematico. È una questione di obiettivi – problematico rispetto a cosa? – e, in senso più generale, di tolleranza. Di clima sociale e culturale. Per secoli in Europa la tolleranza è stata zero, oggi, come ho già detto, la situazione è profondamente cambiata. Cercando comunque di rispondere, potrei dire che un lupo problematico è un animale che fa molti più danni dei suoi conspecifici. Quanto di più? Dipende. Dipende anche quanto vale un animale domestico in uno specifico contesto. Insomma, non c’è una risposta sola, ci sono molte risposte possibili». Prelevare è un termine che ammanta di una certa eleganza la parola “uccidere”, rendendola più spendibile nei rapporti con la popolazione ma, salvo che non si tratti realmente di una cattura e successiva messa in cattività, non cambia la sostanza del suo terribile effetto. Un “prelievo” dunque deve essere ponderato più e più volte, misurato in modo millimetrico e attuato solo dopo ogni altro tentativo che permetta di risolvere una situazione di conflitto con l’uomo senza il sacrificio dell’animale. Già, lupi ed orsi, così come molti altri animali, a volte entrano in conflitto con noi umani, che ci dimentichiamo regolarmente che un tempo convivevamo serenamente e che molte volte loro erano presenti prima o molto prima di noi.

La crescita esponenziale della nostra presenza, quella che gli studiosi chiamano “antropizzazione del territorio”, li costringe in aree sempre più misere, li allontana dai boschi, prati, corsi d’acqua, in nome di un progresso di cui ormai subiamo passivamente gli effetti nefasti perdendo a pezzi, giorno dopo giorno, i pochi vantaggi: questi, infatti, per esserlo realmente devono coinvolgere tutte le specie viventi in quell’ambiente, non solo noi, rappresentando così una conquista di equilibrio ed integrando un unico ecosistema in buona omeostasi. L’antropocentrismo è foriero di uno sbilanciamento che finisce inevitabilmente per causare danni proprio all’uomo. Orsi, lupi, cinghiali, e ogni altra creatura che vive su questo pianeta, ci rimandano in ogni istante al nostro principale compito assegnatoci dalla natura, rispecchiando senza pietà la nostra capacità o incapacità di assolverlo in modo degno. La natura ci è stata messa a disposizione per viverci in mezzo, custodirla, proteggerla. Tutte le esperienze negative che facciamo quando ci allontaniamo dalla nostra missione di custodi, parlano fin troppo chiaro, ma noi continuiamo a non capire, pagandone le spese sulla nostra pelle e su quella dei nostri figli: costruiamo case attaccate ai fiumi, su zone telluriche o franose, ignorando ciò che gli antichi conoscevano e saggiamente evitavano, sterminiamo specie viventi vegetali e animali con cui sapevamo convivere in pace in nome di un benessere che ci si ritorce contro con martellante regolarità, reintroduciamo animali solo per il gusto sadico di ucciderli ed arriviamo a voler eliminare animali meravigliosi che ci stanno solo dicendo che questa Terra è di tutti, di tutte le creature, quelle verso cui dobbiamo provare compassione e amore, soprattutto quando ci chiedono solo un po’ di spazio per vivere vicino noi e dentro al nostro cuore.