Nel sentire l’affermazione “alcuni cani stanno meglio in strada che in canile” molti di coloro che si definiscono amanti dei cani insorgono. Ci puoi spiegare perché, invece, questa affermazione è realmente rispettosa dell’etologia del cane?

Questa domanda e queste affermazioni richiedono di essere trattate con cura perché espongono a pericolose, e inesatte, generalizzazioni. Non mi sentirei di fare affermazioni così perentorie, in un senso e nell’altro, e mi rendo ben conto di non aver molto spazio qui per trattare il tema, molto delicato, come si dovrebbe. Sono dell’opinione che ogni caso debba essere valutato con attenzione e competenza tenendo conto di tutti i fattori – che sono molti – per decidere di percorrere una strada piuttosto che un’altra.

Se il mio cane (Kaos), per fare un esempio, fosse abbandonato per strada non avrebbe molte chances di sopravvivere quindi, nel suo caso, e in migliaia di altri simili, non potrei sostenere che la strada sia la cosa migliore. Certamente per lui la cosa migliore sarebbe trovare una nuova famiglia nella quale inserirsi. Ma non tutti i cani hanno i trascorsi di Kaos, ovvero cresciuti in una casa (benché anche lui provenga da un canile dove fu accolto in tenerissima età e adottato da me circa un anno dopo), in seno ad una famiglia diciamo pure mista di cani, persone e gatti.

Ci sono cani nati da ferali, ovvero cani non socializzati al rapporto con le persone, che hanno distanze di fuga molto rilevanti nei confronti degli esseri umani. Qui la situazione è differente, per questi cani la vicinanza dei rappresentanti della nostra specie è terribile, e non importa quanto affetto noi gli si voglia dimostrare, loro non hanno sviluppato la capacità di comprendere questi comportamenti, per loro è un po’ come se uno di noi venisse rapito da alieni venuti da un altro mondo che hanno tentacoli al posto degli arti e forme per noi incomprensibili. In questa casi la tutela sul territorio è probabilmente la scelta migliore. Naturalmente andrebbe approfondito cosa significhi «cura sul territorio», ma è un lungo discorso con miriadi di variabili che sono da prendere in considerazione di territorio in territorio, generalizzare è impossibile.

Certo posso dire che per questi cani, che si definiscono “ferali”, ovvero nati da generazioni lontani (qui si intende non a stretto contatto) dall’uomo, che hanno sviluppato enormi capacità per vivere al meglio e trasmettere le loro conoscenze ed abilità alle generazioni future, per loro il canile, come l’ambiente domestico, è devastante. Recuperare questa situazione e rendere appena accettabile per questi soggetti la vita a contatto con l’uomo è tanto difficile che mi viene da dire per lo più impossibile, ma aggiungerei anche profondamente ingiusto.

Tra i cani come Kaos, che potrebbero trascorrere un periodo di transito in un canile per poi essere reinseriti in una famiglia idonea (e qui si aprirebbe un lungo discorso sul lavoro che quel canile dovrebbe svolgere) e i cani ferali o semiselvatici vi è un ventaglio molto ampio di gradazioni, che richiedono molta attenzione per una valutazione quanto più accurata possibile.

Quali sono le inclinazioni del cane maggiormente frustrate dalla vita in canile?

Anche qui si potrebbero fare moltissimi distinguo, in realtà dipende da come opera il canile, da come si svolgono le giornate nella struttura, ma certamente la necessità di far parte di una famiglia, con dei referenti affettivi presenti e sui quali poter fare affidamento 24 ore su 24, con i quali esplorare il mondo e fare esperienze, è forse qualcosa che accomuna la maggior parte dei cani che vivono in canile. Naturalmente anche questo bisogno, come molti altri, grava maggiormente su alcuni individui e meno su altri, ogni individuo ha le sue vocazioni e il suo carattere. Questo significa anche che la monotonia della vita in canile, dove ogni giorno è uguale al precedente e al successivo, per creature dotate di cotanta intelligenza, dall’acume estremamente raffinato, quale è quello del cane, la noia richiede una grande resilienza all’individuo, e non tutti rispondono allo stesso modo a questa condizione. La frustrazione e lo stress si manifestano in differenti modi, talvolta anche molto sottili che richiedono un certo occhio per essere notati e quindi per correre ai ripari – se possibile. Altre volte sono talmente eclatanti che chiunque sarebbe in grado di vederli, come per esempio i comportamenti maniaco-compulsivi e autolesionisti, ma notarli non significa poterli lenire: certe cose in canile non si possono dare ad un cane, come una famiglia. Questa deve venire da fuori e le cose da fare devono essere dirette a quell’obbiettivo, ad accelerare questa evenienza.

Quali caratteristiche dovrebbe avere un canile per essere realmente “al servizio” dei cani e della società?

Ci ho scritto un libro di 240 pagine, se devo dare una laconica risposta a questa domanda, direi che il problema centrale è la cultura del nostro paese, dalla quale dipendono la sensibilità e le conoscenze. Quindi, quello che auspico per il prossimo futuro, è che i canili diventino dei veri e propri baluardi per la rivalutazione del rapporto uomo-cane, che diventino dei luoghi di transito per quei cani (che dovranno diventare sempre di meno grazie ad un aumento culturale, per l’appunto) che si trovano momentaneamente senza famiglia. Credo che la strada da battere sia questa perché quelle battute negli ultimi 27 anni (dalla legge 281/91, per intenderci) non hanno portato ad una flessione del problema. Quindi penso sia il caso di contemplare anche altre possibilità, quantomeno affiancandole alle strategie radicate, anche se poco efficaci nell’ottica generale del problema.