Deforestazione, spreco di energia e di acqua, inquinamento, cambiamenti climatici, perdita della biodiversità. Secondo il World Watch Institute il consumo di carne è una delle principali cause di danno ambientale e l’impatto degli allevamenti intensivi sul pianeta minaccia seriamente il futuro dell’umanità. Eppure il consumo di prodotti animali è più che raddoppiato nella scorsa metà del secolo. Negli anni ’50 in Italia era di 18 kg pro capite annui, oggi è di circa 85 kg pro capite. Gli allevamenti intensivi rappresentano il sistema escogitato dalla moderna zootecnia per soddisfare la sempre più crescente domanda di carne da parte dei paesi “ricchi”, senza contare che ad oggi, in nazioni come l’India, la Cina ed il Brasile, si stanno raggiungendo livelli di consumo simili a quelli del cittadino medio occidentale. Grandi capannoni simili a fabbriche consentono di stipare un numero elevatissimo di animali in spazi relativamente ridotti, riducendo così i costi di produzione. Tutta la superficie terrestre, infatti, non sarebbe sufficiente né per allevare la quantità di animali richiesti dal mercato né per coltivare i cereali a loro destinati (solo per la produzione italiana servirebbero 73 milioni di ettari di terra).
“Macchine” a bassissimo rendimento energetico
Sia gli allevamenti intensivi che quelli estensivi (i grandi ranch negli Stati Uniti o i pascoli dei paesi del sud del mondo) comportano un grande spreco di risorse e di energia. Gli animali consumano molte più calorie di quante ne producono sottoforma di carne, latte e uova e, perciò, come convertitori di vegetali in proteine animali sono delle “macchine” inefficienti.
A seconda della specie animale è definito un rapporto di conversione che indica la quantità di cibo vegetale che bisogna dare all’animale per ottenere 1 kg di carne. In media bisogna dare all’animale 15 kg di vegetali per produrre 1 solo kg di carne. Questo accade perché la maggior parte del cibo che introducono gli animali serve a sostenere il loro metabolismo, solo una piccola parte li fa ingrassare. Ad un vitello servono 13 kg di vegetali per aumentare di 1kg, ad un bue ne servono 11, ad un agnello 24. I più redditizi sono i polli, che richiedono solo 3 kg di mangime per ogni kg di peso corporeo. L’economista Frances Moore Lappé ha calcolato che in un anno, nei soli Stati Uniti, sono state prodotte 145 milioni di tonnellate di cereali e soia. Per contro, sono stati ricavati 21 milioni di tonnellate di carne, latte, uova. Facendo la differenza, si ottengono 124 milioni di tonnellate di cibo sprecato: questo cibo, avrebbe assicurato un pasto completo al giorno a tutti gli abitanti della Terra. (Fonte: Frances Moore Lappé, “Diet for a small planet”, New York, Ballantine Books, 1982, pp.69-71).
Spreco di acqua
Il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura finalizzata agli allevamenti, i quali consumano una quantità d’acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare cereali o verdure per il consumo diretto umano. Un manzo (estensivo) richiede 200.000 litri di acqua per 1 kg di alimento; un manzo (intensivo) 100.000 litri; il pollo 3500; il riso 1910; il mais 1400; il frumento 900; le patate 500 litri. (Pimentel 1997). Oltre all’acqua impiegata per le coltivazioni, bisogna includere l’acqua necessaria ad abbeverare gli animali, per la pulizia delle stalle e quella impiegata negli impianti di macellazione. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno; un bovino o un cavallo ne beve 50; un maiale consuma 20 litri di acqua al giorno; una pecora 10 litri (“Le fabbriche degli animali”, E. Moriconi, Ed. Cosmopolis, 2001). Il settimanale “Newsweek” ha calcolato che per produrre solo 5 kg di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media americana in un anno. 5 kg di carne che non bastano a coprire il consumo di una settimana per la stessa famiglia.
Smaltimento delle deiezioni
Negli allevamenti tradizionali gli escrementi animali, uniti alla paglia, formavano il letame, che veniva usato come fertilizzante nei sistemi di agricoltura a rotazione, rispettosi del suolo e grazie ai quali si produceva una grande varietà di cibo. Gli allevamenti intensivi producono una quantità enorme di deiezioni a scarso contenuto organico (non possono essere usate come fertilizzante) che l’ambiente circostante non è in grado di smaltire. Questi escrementi sono ricchi di azoto e fosforo, sostanze che, oltre ad inquinare l’atmosfera, filtrano nei corsi d’acqua, rovinandone la qualità e danneggiando gli ecosistemi acquatici e le zone umide. Nelle deiezioni vi sono anche i residui dei farmaci somministrati agli animali (antibiotici, promotori di crescita ecc.), sostanze che contaminano le falde acquifere passando così nei vegetali coltivati e nel pesce che troviamo sulle nostre tavole. Per avere un’idea della portata del problema è sufficiente sapere che le sole deiezioni provenienti dagli allevamenti intensivi USA inquinano l’acqua più di tutte le altre fonti industriali raggruppate. (Environmental Protection Agency 1996).
Gli scarti della macellazione
Le parti di scarto degli animali uccisi vanno smaltite. La testa, i visceri, gli zoccoli, il contenuto dell’intestino, le cartilagini, le piume, le ghiandole, sono parti che non vengono normalmente usate. Fino a pochi anni fa venivano essiccate e tritate in farine carnee che venivano aggiunte ai mangimi degli animali erbivori, ma dopo il caso “mucca pazza”, questo non è più possibile e quindi vengono stoccate, con conseguente spreco di spazio e denaro pubblico. In caso di epidemie, milioni di animali vengono bruciati o seppelliti. La cremazione richiede una grande quantità di combustibile ed emette fumi inquinanti e tossici (compresa la diossina). La sepoltura contribuisce all’inquinamento delle fonti d’acqua e all’inquinamento da antibiotici (di cui gli animali sono imbottiti). La pelle è usata nell’industria conciaria, che è una delle più inquinanti che esistano: le concerie sono responsabili dell’acidificazione di vasti territori agricoli e rendono non potabili le acque della zona in cui sorgono, oltre a essere estremamente dannose per la salute dei lavoratori. Monoculture: inquinamento chimico, modificazione del paesaggio, riduzione della biodiversità Negli ultimi cinquant’anni l’agricoltura ha impiegato in modo indiscriminato sostanze chimiche come fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi. Queste sostanze inquinano il suolo, l’acqua e il cibo di cui ci nutriamo. Se la terra fosse usata per produrre cibo per il consumo umano diretto, usando la coltivazione a rotazione, che rispetta il terreno evitandone l’impoverimento, sarebbe necessaria una quantità di sostanze chimiche di gran lunga inferiore. E’ la monocultura (di mais, grano, girasole) che richiede un uso massiccio di sostanze chimiche ed è anche la causa della modificazione del paesaggio e della riduzione della biodiversità. Infatti, i campi sono estesi il più possibile ed alberi, arbusti e siepi vengono eliminati per consentire ai macchinari agricoli di muoversi senza intralci e così l’habitat di tante specie di uccelli e roditori viene distrutto.
Hamburger a pranzo? 6 mq di foresta in meno
Contrariamente a quanto si crede la principale causa di deforestazione sono gli allevamenti dei bovini e non il taglio del legname. Per fornire carne all’Occidente sono stati distrutti in pochi anni milioni di ettari di foresta pluviale. In soli dieci anni (dal 1990 al 2000) l’Amazzonia Brasiliana ha perso un’area di foresta pari a due volte il Portogallo, adibita a pascolo per il consumo interno e per l’esportazione in Europa, Giappone e USA. L’88% dei terreni disboscati nella foresta Amazzonica e circa il 70% delle zone disboscate del Costa Rica e del Panama sono state trasformate in pascoli. In totale la metà della foresta pluviale dell’America centrale e meridionale è stata abbattuta per l’allevamento. E il ritmo del disboscamento è in continua crescita: ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali. Oltretutto il suolo delle foreste tropicali non è adatto al pascolo perché è troppo sottile e dopo pochi anni l’area va incontro a un processo irreversibile di desertificazione, e quindi diventa necessario abbattere una nuova porzione di foresta. Gli alberi abbattuti, infine, non vengono commercializzati, poiché risulta più conveniente bruciarli sul posto.
Ogni hamburger importato dall’America Centrale comporta l’abbattimento e la trasformazione a pascolo di 6 mq di foresta.
Degradazione del suolo e desertificazione
L’allevamento estensivo di animali è uno dei fattori che più contribuisce all’erosione del suolo. Quando un pascolo è eccessivamente sfruttato, il bestiame compatta il suolo con gli zoccoli e strappa la vegetazione che tiene assieme il terreno e questo causa l’erosione che, a sua volta, è responsabile di disastri idrogeologici. Le Nazioni Unite stimano che il 70% dei terreni ora adibiti a pascolo siano in via di desertificazione.
Effetto serra e cambiamenti climatici
Nel numero del 13 settembre 2007 della rivista scientifica internazionale “The Lancet” l’articolo “Cibo, allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute” mostra quanto sia urgente una diminuzione drastica del consumo di carne per evitare il disastro ambientale. Per l’emissione di gas serra la produzione di cibi animali incide del 58%, quasi il triplo rispetto alla produzione di cereali e vegetali ad uso umano. La seconda causa del surriscaldamento terrestre dopo l’edilizia abitativa è il settore zootecnico. Il bestiame emette gas serra in modo diretto, come sottoprodotto della digestione, in particolare metano e ossido di azoto che, rispettivamente, sono 72 volte e 296 volte più inquinanti della CO2. Inoltre, l’alto contenuto di ammoniaca delle deiezioni animali è una delle cause principali delle piogge acide che inquinano suoli e boschi. Le emissioni di gas serra causate dal settore zootecnico sono pari al 18% del totale; come percentuale questa è simile a quella dovuta all’industria e maggiore di quella dovuta al settore dei trasporti (13,5%). [McMichael2007]. Questo significa che se è giusto stare attenti ai veicoli con cui ci si sposta, è ancora più importante fare attenzione alla propria alimentazione.
L’alimentazione vegana è la più ecologica
L’associazione di consumatori tedesca Foodwatch ha pubblicato nell’agosto 2008 un report sull’impatto dell’agricoltura e dell’allevamento sull’effetto serra, svolto dall’Istituto tedesco per la Ricerca sull’Economia Ecologica. Lo studio ha tenuto conto delle emissioni di CO2 risultanti dalla coltivazione dei mangimi per gli animali, dall’utilizzo dei pascoli per l’allevamento e dalle deiezioni prodotte dagli animali stessi. Da questa ricerca emerge che l’alimentazione 100% vegetale è quella che impatta meno sul pianeta in termini di emissioni di gas serra. L’alimentazione latto – ovo – vegetariana ha un impatto 4 volte più alto, quella onnivora 8 volte più alto.
Gas serra e “km zero”
Uno studio di due ricercatori della Carnegie Mellon University, pubblicato nel numero di aprile 2008 della rivista scientifica “Environmental Science and Technology,” mostra che mangiare “vegetale” piuttosto che “locale” contribuisce a ridurre maggiormente l’effetto serra. La loro ricerca riporta che le emissioni di gas serra associate al cibo sono maggiori durante la fase di produzione, che contribuisce per l’83%, piuttosto che durante il trasporto delle materie prime, che contribuisce per l’11%, o durante il trasporto finale dal produttore al consumatore, che contribuisce solo per il 4% (ed è questo che viene considerato nel calcolo dei km-cibo). Da questi dati è evidente che consumare cibo prodotto localmente incide molto poco sulla produzione di gas serra; per ridurre il proprio impatto ambientale, sarebbe opportuno non solo consumare “locale”, ma soprattutto “vegetale”. Anche consumare carne biologica non aiuta il pianeta. Soltanto se tutti gli allevamenti fossero biologici ci sarebbero dei benefici per l’ambiente.
Richiedendo molta più terra per la produzione di mangimi e per gli allevamenti stessi, ci sarebbe necessariamente una diminuzione di almeno il 70% della produzione. In questo caso vi sarebbero solo il 30% degli animali che si allevano oggi, e perciò l’impatto ambientale sarebbe minore solo perché si allevano meno animali, non perché si allevano in modo biologico. Per risolvere il problema ambientale si dovrebbero diminuire i consumi di carne di almeno il 70%.
L’itticultura
Anche la pesca e l’allevamento di pesci comporta numerosi danni ambientali. La pesca intensiva nei mari determina la scomparsa di numerose specie e sta distruggendo l’ecosistema marino. Si va perciò diffondendo sempre più l’allevamento di pesci, che avviene in maggioranza in vasche di cemento o gabbie di mare. L’itticultura inquina a causa dell’uso di erbicidi, disinfettanti e per l’enorme quantità di deiezioni che vengono scaricate nelle acque costiere assieme agli scarti dei mangimi. Inoltre, per alimentare i pesci carnivori degli allevamenti vengono depredate le già scarse risorse ittiche: per 10 spigole d’allevamento serve 1 quintale di sardine catturate in mare.
Come ridurre la propria impronta ecologica?
L’unica soluzione è limitare in maniera considerevole il consumo di cibi animali (carne, latte, uova e pesce) o, ancora meglio, alimentarsi secondo una dieta 100% vegetale. Come consumatori abbiamo un grande potere per direzionare il mercato e scegliere di cambiare il proprio stile alimentare significa attuare un cambiamento concreto ed immediato. Non è necessario attendere leggi o decisioni dall’alto, decidere di cosa nutrirsi è una delle poche armi che sono rimaste in mano ai singoli individui per contrastare lo strapotere delle multinazionali e le lobby degli allevatori (il settore zootecnico in Europa è l’unico esentato dai programmi di riduzione di emissione dei gas serra).
Per salvare la Terra, gli animali e la nostra stessa salute molte persone hanno già scelto un’alimentazione 100% vegetale. Provaci anche tu!