di Margherita Settimo

La nutria, conosciamola meglio

Le nutrie sono animali dal destino scomodo e molto disordinato.

Negli anni ’50 del secolo scorso sono state importate dal Sud America da commercianti di pellame per farne merce da allevamento. Immesse sul mercato come “castorino”, un nickname più delizioso da vendere, le signore le indossavano come cappotto di pelliccia o come colli di giacche.

Quando quel pelo rigido, ma tanto morbido non andò più di moda, se ne fecero interni di giacconi e poi via via non piacque proprio più: le clienti sceglievano le volpi, il castoro, i visoni, il lapin. Il castorino non si vendeva più. Aprirono le gabbie e buttarono via le nutrie, alcuni disperdendole in prossimità di fiumi, altri uccidendole, forse ignari, sicuramente noncuranti, di che tipo di animale fosse la nutria, roditore americano che con l’Italia non doveva averci nulla a che fare. Perché è estremamente prolifica (le femmine possono partorire 2/3 volte l’anno), perchè è una preda, ma in Italia anaconde, giaguari e puma non ce ne sono, perchè c’è la Pianura Padana qui, un territorio sfiancato dall’uomo e ridotto ad una trama di canali irrigui dall’industria agricola intensiva, ma un perfetto eldorado per un animale semi-acquatico, un’oasi felice dove può riprodursi e trovare facilmente cibo.

Un animale non è mai un problema in sé, neanche se è un alloctono invasore sulla cui testa pesano decisioni brutali. Ma diventa una questione da risolvere perché inserito in un contesto:

le nutrie costruiscono le loro tane negli argini dei fiumi, quelli con inclinazioni superiori ai 45 gradi, quindi già strutturalmente instabili, e scavano soltanto dove non c’è vegetazione. Se trovano arbusti, sceglieranno di disporre una piccola zattera con rami secchi. Una tana per famiglia: il loro costruire ha un fine semplice di ricovero. E di aiuto: diventa casa per altre specie durante il letargo, dunque sono parte attiva nella salvaguardia della biodiversità locale.

Ma se il terreno che scelgono è troppo spoglio perché esasperato dallo sfruttamento da parte dell’uomo, il suolo frana e le nutrie ne diventano le sole colpevoli.

Se il fine più etico, più scientifico è quello di stare al mondo in uno stato di convivenza pacifica tra le parti, giusto è studiare come assicurare (e modificare) il lavoro agli agricoltori, come preoccuparsi del consumo brado della terra, della sua incuria, e di come contenere incruentemente la riproduttività della nutria, straniera qui, ma che non ha nulla di meno di noi, essendo viva anch’essa. In un trend di anni e anni che ha visto il cacciatore come unica soluzione dai fastidi animali, come una medicina da banco perché toglie la noia del sintomo, ma non guarisce il problema, le amministrazioni hanno dato largo spazio alle doppiette. Ma per quanto i cacciatori siano i soliti scritturati sulla scena della politica italiana, la società attorno a loro va avanti, con le sue conquiste scientifiche, il suo progresso morale, i suoi parametri etici e un Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, che sta dimostrando essere un professionista preparato e avveduto.

È provato: gli abbattimenti non servono a niente. Durante le campagne di eradicazione, le femmine gravide tendono a nascondersi, esponendo agli spari i maschi adulti e favorendo quindi la preservazione dei giovani che quindi feconderanno nuovamente le femmine. Non solo. Anche se si riuscisse a sterminare un’intera famiglia, la nicchia lasciata libera verrebbe ricolonizzata da altri elementi e la vita ricomincerebbe,

senza aver nulla di fatto. Il progetto di sterilizzazione di cui parleremo in seguito e che è pioniere in Europa, attinge quindi da una visione ampia del problema: non si bada al sintomo, ma si fa riferimento alla causa; la nutria non è una cosa, ma è una creatura senziente (Trattato di Lisbona, art. 13); l’azione di uccidere non solo non serve, ma non dovrebbe mai essere promossa da nessun tipo di politica né di istituzione, perché non educativa al fine del progresso evolutivo dell’uomo e si prefigurerebbe soltanto come un “avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento” *. Aiutare la sensibilizzazione all’empatia verso chi ci sta attorno, processo già in atto tra la gente comune, allena a ricordarci che se c’è un problema, va risolto nel consenso di ogni parte. “Devi stare dentro il batticuore di tutti”, scrive Franco Arminio. Il punto da ritrovare sta proprio nell’approccio con cui si bada alle cose: un’intenzione sbagliata verso la questione nutrie presupporrà un’intenzione distratta verso le problematiche dei campi degli agricoltori, verso la natura dei fiumi, e l’attenzione ai suoli perché è il senso di responsabilità che guarda le cose negli occhi, se ne fa carico e le cura. Ne faremo migliaia di pellegrinaggi per il clima o per gli animali o per i più poveri, se sarà necessario: il 4 ottobre chi si è messo in cammino da piazza San Pietro verso Katowice, sede del COP24, ha dato esempio e forza a chi si sta rassegnando o a chi non riesce più a sentire o a chi invece ha iniziato a cercare.

Parola d’ordine: sterilizzazione. Il progetto del CANC e delle associazioni animaliste di Torino

Mitzy Mauthe von Degerfeld e Giuseppe Quaranta, professori veterinari del CANC (Centro Animali Non Convenzionali) dell’Università di Torino, non hanno dubbi: il piano di contenimento delle nutrie tramite intervento incruento sta avendo e avrà un successo contagioso.

Il progetto, pioniere in Europa, patrocinato dal Comune di Torino e sostenuto dalla Città Metropolitana di Torino, è già alla sua terza fase di attuazione nella città e non solo sta portando a compimento l’obiettivo, ma si sta strutturando come un modello di riferimento che potrà garantire alle altre amministrazioni d’Italia e d’Europa la riuscita dei piani di contenimento incruenti per quegli animali registrati come nocivi sul regolamento dell’Unione Europea.

La Prof.ssa Mauthe von Degerfeld e il Prof. Quaranta raccontano di essersi ispirati, ben consapevoli delle differenze biologiche e comportamentali tra le due specie, agli interventi che da anni si praticano sulle colonie feline di gatti sterilizzati, esempi di equilibri stanziali e gestibili. Ma per le nutrie è indispensabile un censimento attendibile degli elementi di ciascuna aggregazione (numeri che quasi mai le amministrazioni hanno, pur erigendosi a loro sorte) e un buon monitoraggio delle colonie, per spiarne le abitudini e per studiarne l’etologia, in modo poi da procedere con il miglior sistema di cattura, senza provocare danno alcuno.

Le prove generali, condotte nell’Oasi di Crava Morozzo, luogo ideale dove i veterinari potessero osservarne il comportamento dopo l’operazione, hanno portato a Milliqu, la prima nutria torinese catturata con gabbie trappole: sterilizzata in laparoscopia, è tornata a nuotare nei laghetti della Falchera dopo soli 120 minuti.

Questo tipo di intervento, ha spiegato bene la Professoressa, è il migliore: rapido e poco invasivo, consente di operare attraverso fori chirurgici molto piccoli del diametro di 2,7 millimetri. La reimmissione dell’animale nel suo habitat dopo così poco tempo inoltre, permette agli esemplari di tornare nel loro territorio e dunque di riprenderne uso e spazio senza che la colonia ne venga minimamente disturbata. L’intelligenza di questa scelta di intervento sta anche nel fatto che si rende l’animale improduttivo, ma senza alterarne gli equilibri ormonali, che gestiscono l’identità e l’operatività gerarchica all’interno di un gruppo. Dunque l’animale non procrea più, il territorio non viene abbandonato quindi ricolonizzato e la famiglia continua il suo trantran quotidiano per tutto il tempo che la sorte ne ha disposto. Il Regolamento UE n.1143/2014 che reca disposizioni mirate a gestire la diffusione delle specie alloctone invasive anche tramite il controllo è dunque perfettamente atteso. E lo è anche il Trattato di Lisbona che dichiara l’animale “essere senziente”, dunque meritevole di vivere la sua vita appieno. Nel coinvolgente incontro con i professori del CANC, si è parlato anche del rapporto delle persone verso le nutrie cittadine. A Torino c’è chi le custodisce come i gatti: porta loro cibo per garantirne i pasti, le introduce ai bambini che se ne innamorano, le difende a spada tratta come membri della comunità. Meravigliosamente onorabile. Ma le nutrie sono animali selvatici e più che amate basterebbe fossero rispettate. Lasciate nel territorio che hanno scelto, guardate da lontano, sorvegliate, certo! ma “a distanza”, con una soggezione più pudica forse, che ne ricordi la natura e il posto nel mondo. Gli animali selvatici non possono dimenticare di temere l’uomo per non smettere mai di allenarsi a guardarlo con sospetto e attenzione. Perché se in un momento di difficoltà, abituati a confidare nell’uomo, quello che li ama e li onora, dovessero trovare chi invece non ne ha rispetto né buone intenzioni, non saprebbero più come difendersene. La diffidenza verso l’uomo è una prerogativa innata in tutte le creature viventi selvatiche ed è giusto che venga conservata: chi desidera aiutarle lo può comunque fare, dedicandosene nel rispetto di questa loro necessità. Nessun animale è cattivo, ricorda il Professor Quaranta, aggredisce soltanto a ragion veduta. Quindi persino una nutria, se tenuta in casa addomesticata, non preferirebbe mai un tuffo in acqua allo stare accanto alla sua famiglia, sceglierebbe l’amore. Ma è dovere dell’uomo ricordarsi delle sue esigenze etologiche e non farne un pet felice nel cuore, ma disadattato e incompleto.

La nutria è un animale gregario, di indole mansueta, è un predato, quindi non ha il carattere aggressivo di un predatore, e si abitua presto alle regole della sua società, dove le nonne la fan da padrone e i maschi in bollenti spiriti vengono palleggiati per procreare, quando è ora. Il paese di Bengodi che per la nutria è l’Italia, la porta a procreare serenamente senza disturbo alcuno. Per questo motivo, in un habitat già definitivamente bistrattato dall’uomo, per poterci stare e vivere serenamente, deve essere monitorata e contenuta.

Questo progetto porta in sé una vittoria scientifica ed etica, ma ha bisogno di risorse. I tecnici del CANC hanno previsto un’equipe di medici veterinari che li aiuta nella gestione di ogni passaggio dell’intervento; la clinica mobile, piccolo e funzionale ospedale con una vera e propria sala operatoria all’interno, portata sul territorio delle colonie per adempiere a tutte le normative, ha i suoi costi, ma che non sono così diversi da quelli utilizzati per i piani di controllo invasivi e cruenti; i tecnici faunistici della Città Metropolitana di Torino con l’aiuto della Guardie Venatorie volontarie provvedono all’operazione di cattura degli animali e i numerosi volontari delle Associazioni Animaliste, coordinati da Alessandro Piacenza, consigliere nazionale OIPA, sono formati tramite un corso organizzato dall’Università. Le risorse dell’Unione Europea ci sono, ma i fondi devono essere richiesti dagli Enti in modo tempestivo e corretto. E, ribadisce il Prof. Quaranta, questo progetto non vuole essere di nicchia, per funzionare al meglio va integrato, concertato con tutti gli attori che coinvolge, come gli agricoltori, e chi gestisce il territorio. Unite le forze, chiunque ne trarrà il suo vantaggio, nell’equilibrio collaborativo di una convivenza che pensa al futuro migliore.

Il progetto del CANC sul piano di contenimento della nutria tramite intervento incruento, come già detto, ha avuto il patrocinio del Comune di Torino ed è stato voluto dalla Città Metropolitana di Torino, che ha competenza diretta sulla tutela della fauna. Alberto Unia, Assessore all’Ambiente, nell’intervista che ci ha concesso personalmente, ha dichiarato che è la volontà politica a monte a scegliere come indirizzare le decisioni. Nel compito educativo di un’istituzione c’è il dovere di interrogarsi, ragionare e far ragionare, mettersi in discussione per trovare le giuste soluzioni laddove quelle passate hanno fallito. La questione delle nutrie ha dato l’opportunità di iniziare a cambiare l’orientamento di vecchi processi perchè, continua, “Decidere di stare attenti per davvero agli animali significa riformulare ciò che si basa su parametri scientifici ormai superati e procedere su quelli nuovi”.
Largo dunque alla sperimentazione che condivida sia risultati sia nuovi approcci di gestione. Un saper fare politica coraggioso che, lo scorso anno, ha saputo vincere anche sulla temuta riapertura dello zoo in un enorme spazio verde pubblico in pieno centro città, a rischio privatizzazione sulla pelle di animali in gabbia.
Barbara Azzarà, consigliera delegata della Città Metropolitana di Torino, nel tempo che ci ha gentilmente concesso, ha spiegato che la scelta di sostenere il piano di contenimento tramite sterilizzazione è stata prettamente scientifica e non ideologica, e, se mai, quasi matematica, con i dati e i risultati dei piani di abbattimenti alla mano.

Il ruolo di amministratore, sostiene, comporta la consapevolezza che la politica non è onnipotente e che, di fatto, subisce le influenze delle parti in gioco, che sono tante e lontane tra loro: l’unico modo per concertarle è provare a gestirle via assunti scientifici. Questi ultimi hanno obbligato alla decisione di procedere con l’attuazione del progetto del Canc sia per sostenere nuove strade sperimentali contro gli evidenti (e matematici) flop degli altri programmi, sia per porre le basi a politiche che rispettino gli animali e l’ambiente in una visione più matura e lungimirante.